lunedì 5 dicembre 2011

(Appunti): V per Vendette




(appunti da Wu Ming Foundation)



Guy Fawkes


Il 5 novembre in Inghilterra si celebra una ricorrenza strana. Si festeggia la sventata Congiura delle Polveri del 1605, che avrebbe fatto saltare in aria la Camera dei Lord, con il re e tutti i deputati dentro. Grazie a una soffiata dell’ultimo minuto, il congiurato Guy Fawkes venne sorpreso mentre stava per dare fuoco a 2.500 chili di polvere da sparo, piazzati nei sotterranei del Parlamento. Con britannico sense of humour, il 5 novembre si fanno scoppiare petardi, fuochi artificiali, e si fanno spettacoli pirotecnici (in certe località si brucia anche il fantoccio di Fawkes).


Insomma l’aspirante regicida era un papista xenofobo. Nondimeno la sua figura si è prestata a essere ammantata di anti-eroico romanticismo, in virtù del fatto che i successivi anni di regno rivelarono l’intenzione di Giacomo I di realizzare una monarchia di stampo assolutista. Giacomo sciolse per ben tre volte il Parlamento e di fatto creò le precondizioni per la guerra civile (1642-1660) e la prima rivoluzione inglese, guidata dai puritani, che avrebbero visto il suo secondogenito e successore Carlo I salire al patibolo. Insomma, col senno di poi, Fawkes aveva sì attentato alla vita del monarca e del Parlamento, ma di un monarca tirannico e di un Parlamento composto dall’alta borghesia anglicana emergente. Tutto sommato i poveracci potevano avere qualche istintivo moto di simpatia per Guy il dinamitardo.



V per Vendetta



Negli anni Ottanta del secolo scorso, Alan Moore ha recuperato la figura di Guy Fawkes trasformandolo in eroe popolare, senza però sottrargli l’ambiguità di fondo. In questo caso non si tratta già del Fawkes storico, ma del protagonista del celeberrimo fumetto illustrato da David Lloyd, V per Vendetta, che di Fawkes indossa la maschera e gli abiti.

Con il suo predecessore, V condivide anche la passione per gli esplosivi. Per di più, lui riesce laddove l’antenato aveva fallito nei suoi intenti dinamitardi. Forse perché agisce come un vendicatore solitario, senza altri congiurati che possano farsi prendere dai rimorsi di coscienza e tradirlo. O forse perché, al contrario del Fawkes storico, che teneva per il papa contro il re, V è invece un anarchico dichiarato. Dopo il Parlamento fa saltare in aria l’Old Bailey, il tribunale di Londra, simbolo della Giustizia che lo ha tradito prostituendosi con la dittatura. V dichiara di averle preferito Anarchia. Quest’ultima non fa promesse e quindi non le infrange, è assolutamente onesta e garantisce assoluta libertà. E’ la vera giustizia. Una riflessione, questa di V, anche più ambigua della filastrocca sulla Congiura delle Polveri.

La vendetta per il tradimento della giustizia corrisponde allo scatenamento del caos, unica soluzione per una società e un’umanità che potranno redimersi soltanto passando attraverso la palingenesi delle fiamme. “Fidati di me, Evey, e cancelleremo tutto”, dice V alla sua giovane adepta. “Tutto il dolore, tutta la crudeltà, tutte le perdite. Ricominceremo da capo”.

Linguaggio e scenario del fumetto di Moore sono decisamente apocalittici, così come è inquietante la figura del vendicatore mascherato V, che con l’ultimo attentato si immola per innescare la miccia del caos, e consentire così ai costruttori che verranno dopo di riedificare una nuova società sopra le macerie di quella vecchia. Dopo il potere legislativo e quello giudiziario, quindi, colpisce il potere esecutivo, Downing Street, e dà l’ultima spallata al sistema.

La storia di Moore ha un finale tragico e aperto al tempo stesso. Il crollo istituzionale si realizza, ma non sappiamo se evolverà in anarchia consapevole, cioè in libertà organizzata, o se sfocerà semplicemente nella barbarie e nella sopraffazione indiscriminata. La maschera di V/Fawkes passa di mano e la sua missione quindi continua; tuttavia quello che ci viene mostrato nelle ultime vignette è un mondo popolato da relitti umani.

 
Ancora V per Vendetta


Non meraviglia dunque che Moore abbia misconosciuto il film che nel 2005 i fratelli Wachowski hanno tratto dal fumetto, il cui happy end tradisce del tutto lo spirito della storia originale. La maschera del V cinematografico si potrebbe collocare a mezza via tra quella di Zorro (anch’essa riportata in auge dal cinema alla fine del secolo scorso) e il passamontagna del Subcomandante Marcos.

Nell’ultima sequenza del film, una moltitudine in marcia, anonima e acefala, in cui tutti indossano la maschera e il costume di V/Fawkes, si riappropria della sovranità e assiste all’esplosione del Parlamento. Questo avviene al culmine di una catena consequenziale di eventi: gli attentati, la guerriglia comunicativa e le provocazioni di V causano fibrillazione, inquietudine, shock, presa di coscienza. Poi la scintilla, l’uccisione di una bambina da parte di uno sbirro nel quartiere londinese di Brixton, scatena i riot popolari. Il riot genera repressione poliziesca, che però non ottiene altro risultato se non quello di radicalizzare ulteriormente le coscienze. L’esercito non spara sulle migliaia di V che avanzano verso il Parlamento, perché la catena di comando è ormai decaduta, lo Stato semplicemente si dissolve e… cosa?  Quale potere costituente fa da contraltare alla lapidaria affermazione iniziale “l’unico verdetto è vendicarsi”? Quale forma sociale si afferma nello spazio comune liberato? Il film si guarda bene dal dircelo.

Il finale aperto di Moore ci lasciava con un’incertezza problematica, in grado di retroagire su tutta la storia e restituirci il carico di contradditorietà dell’agire solitario di V. Il film invece ci mette davanti ai fuochi d’artificio del 5 novembre senza colpo ferire. La detonazione finale diventa una catarsi che fa evaporare il conflitto. L’errore era pensare che il Palazzo d’Inverno andasse conquistato, invece bastava farlo saltare in aria e subito sarebbero apparsi “cielo e terra nuovi”, come recita l’Apocalisse. I manifestanti si tolgono la maschera e sotto c’è ognuno di noi. Perché V siamo tutti e l’unica cosa che dobbiamo fare è riprenderci lo spazio del comune che le istituzioni falsamente rappresentative ci hanno tolto. Tanto i soldati non possono spararci… perché evidentemente anche i soldati siamo noi, possiamo passare incolumi attraverso di loro.

Nel fumetto il problema novecentesco della dialettica e della rappresentanza viene negato in favore di un azzeramento libertario che resta comunque un salto nel buio, ancorché presentato come necessario. Nel film invece la questione viene semplicemente elusa. “Non ci rappresenta nessuno” è una constatazione che diventa rivendicazione. Solo noi possiamo rappresentarci, quindi. E su quel “noi” che sta sotto la maschera partono i titoli di coda…


Anonymous


Pochi anni dopo, la stessa maschera assurge a icona ribelle nella crisi globale e “Anonymous” la usa per rivendicare azioni di hacking e guerriglia informatica contro gruppi finanziari e governi. Il ghigno beffardo di V/Fawkes ricompare nei pressi della House of Parliament in mezzo alle manifestazioni studentesche e la sua V cerchiata, sorta di simbolo anarchico rovesciato, diventa una firma collettiva, il marchio da lasciare sulle vetrine delle banche o nelle strade di tutto il mondo occidentale.

Ma la vendetta a cui quel segno allude non è già giustizia sociale. Come negare la rappresentabilità di un movimento non significa già incarnare l’alternativa di nuove istituzioni. I titoli di coda non hanno smesso di scorrere…



Edmond Dantès e il tesoro di Spada




Nel film del 2005 di lui si dice che è “Edmond Dantès“. V è il Conte di Montecristo che fa piazza pulita di politicanti, mercanti e banchieri corrotti che l’hanno tradito. E’ un patrimonio narrativo condiviso a fornire una chiave di lettura, una cornice, all’agire pratico dell’eroe. E’ grazie all’applicabilità del racconto che la metafora prende vita fuori dalla pagina.
Così come Edmond Dantès mette il tesoro di Spada a disposizione della propria vendetta e della ricostruzione della propria vita, allo stesso modo la nuova incarnazione di V – l’adepta che è cresciuta per indossarne la maschera – dovrà aprire la galleria dell’ombra e mettere a disposizione dei ricostruttori il tesoro che contiene.

Fuori o dentro la metafora e i suoi riverberi, si mette a frutto la cultura, intesa non solo come narrazione, analisi scientifica, o produzione artistica, ma in generale come pratica dell’intelligenza collettiva. E’ quella la materia prima, la malta, con cui si costruisce la strada che attraversa il deserto. Pensare di trovare la via d’uscita con una geniale alchimia politica è assurdo almeno quanto pensare di produrre l’Evento dando semplicemente fuoco a una miccia. Si tratta piuttosto di scovare contraddizioni, di allargare crepe, di scegliere pratiche politiche e di relazione che alludano a una trasformazione possibile. Qualcosa che ha a che fare con il lavoro quotidiano piuttosto che con una Grande Detonazione o una Grande Alleanza, e che nondimeno non potrà eludere il conflitto, o vedere l’avversario dissolversi da sé. Anzi, proprio in virtù delle pratiche scelte l’avversario si farà cattivo, a prescindere dal suo colore politico.


Dopo la catastrofe 


Coltivare in comune il sapere, farlo gratuitamente, pubblicamente, restituirlo in forma di ricchezza sociale; uscire dalla logica ristretta di una famiglia, un clan, una cordata clientelare, un partito politico, un’adunata, per popolare uno spazio aperto; liberare luoghi e produrre occasioni di discussione sul fare comune, per organizzarlo; ritrovarsi, per sentirsi meno soli (il movente che, secondo C.S. Lewis, sta alla base della lettura, cioè del farsi raccontare una storia come del raccontarla). Tutto questo bisognerà attrezzarsi per difenderlo, altrimenti verrà chiuso e soffocato in fretta, proprio mentre si avrebbe la pretesa di alzare la posta fino al grande crack, al default, allo show down. Purtroppo o per fortuna le cose non andranno così, non ci sarà nessuna apocalisse, nessuna palingenesi. La catastrofe c’è già stata, è spalmata sui trent’anni che abbiamo alle spalle. Viviamo già tra le macerie, anche se c’è chi pensa che le ultime generazioni siano “senza trauma” (e invece sono quelle che nel crollo sono nate e cresciute, che l’hanno respirato e assorbito attraverso ogni poro della pelle, senza nemmeno avere un peccato originale da scontare).

Come alla fine del fumetto di Alan Moore, per qualcuno può trattarsi di “recuperare qualcosa… Questi zotici non sono molto, ma col tempo potremmo formare un piccolo esercito. Possiamo restaurare l’ordine.”


A tutti gli altri invece, pochi o tanti che siano, tocca affilare i cervelli come rasoi.

«Non so cosa sarà di noi, Tom Due Volte. Faccio come te e lo ripeto: non so. Tu hai visto troppo e sai troppo per tornare a essere un bambino qualunque. Io anche. Siamo uguali, in questo. Decideranno di noi, decideranno per noi.
A meno che…»
Beatrice Masini, Bambini nel bosco, 2010




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